ANNO 25 n° 107
''Drug Gojko'' al teatro comunale di Vallerano
Lo spettacolo di Pietro Benedetti in programma alle ore 18
15/01/2013 - 12:42

Si terrà lunedì 21 gennaio alle 18 al teatro comunale di Vallerano lo spettacolo “Drug Gojko”, di Pietro Benedetti, per la regia di Elena Mozzetta. Sul palco lo stesso Benedetti: l’ingresso è gratuito. Lo spettacolo, che si avvale della consulenza letteraria di Antonello Ricci, narra in forma di monologo le vicende di Nello Marignoli, classe 1923, gommista viterbese, radiotelegrafista della Marina Militare italiana sul fronte greco -albanese nei giorni intorno all’8 Settembre del 1943 e combattente partigiano nell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo. Lo spettacolo, che nasce da una ricerca di Pietro Benedetti e si avvale della testimonianza diretta di Marignoli, è di notevole interesse per la storia locale, nazionale e, infine europea, nel dramma individuale e collettivo della seconda guerra mondiale. Una storia militare, civile e sociale, riassunta nei trascorsi di un artigiano, vulcanizzatore del Novecento rievocata con un innato stile narrativo ed emozionante quanto privo di retorica.

Lʼinizio è sul dragamine Rovigno: una croce uncinata issata al posto del tricolore. Il finale è lʼabbraccio tra madre e figlio, finalmente ritrovati, nella città in macerie. Così vuole lʼepos popolare. Così dispiega la sua odissea di guerra un bravo narratore: secondo il più convenzionale degli schemi, in ordine cronologico. Ma mulinelli si aprono, di continuo, nel flusso del racconto. Rompono la superficie dello schema complessivo, lo increspano, lo fanno singhiozzare magari fino a contraddirlo: parentesi, divagazioni, digressioni, precisazioni, correzioni, rettifiche, commenti, esempi, sentenze, morali.Così, proprio così Nello racconta il suo racconto di guerra. Nello Marignoli da Viterbo: gommista in tempo di pace; in guerra, invece, prima soldato della Regia Marina italica e poi radiotelegrafista nella resistenza jugoslava.Nello è narratore di straordinaria intensità. Tesse trame per dettagli e per figure, una dopo lʼaltra, una più bella dellʼaltra: la ricezione in cuffia, lʼ8 settembre, dellʼarmistizio; il disprezzo tedesco di fronte al tricolore ammainato; lʼidea di segare nottetempo le catene al dragamine e tentare la fuga in mare aperto; il barbiere nel campo di prigionia: «un ometto insignificante» che si rivela ufficiale della Decima Brigata Herzegovaska; le piastrine degli italiani trucidati dai nazisti: poveri figli col cranio sfondato e quelle misere giacchette a -20°; il cadavere del soldato tedesco con la foto di sua moglie stretta nel pugno; lo zoccolo pietoso del cavallo che risparmia i corpi senza vita sul sentiero; il lasciapassare partigiano e la picara «locomotiva umana», tutta muscoli e nervi e barba lunga, che percorre a piedi lʼItalia, da Trieste a Viterbo; la stella rossa sul berretto che indispettisce i camion anglo-americani e non li fa fermare; la visione infine, terribile, assoluta, della città in macerie. Ma soprattutto unʼidea ferma: la certezza che le parole non ce la faranno a tener dietro, ad accogliere e contenere, a garantire forma compiuta e un senso permanente allʼimmane sciagura scampata dal superstite (e testimone.




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