ANNO 25 n° 110
L'ombelico del Congo
Riflessioni di Elda Martinelli, con simpatia...
18/07/2013 - 04:00

di Elda Martinelli

VITERBO - Ho due figlie, ne parlo spesso. Ma se avessi avuto un maschio, senza dubbio alcuno, lo avrei invogliato a fare rugby: no, non perché è uno sport “maschio”, non sono così sessista… Ma per il “terzo tempo” incluso nell’educazione agonistica e umanamente formativa di questo sport. Il miglior momento di ogni incontro sportivo, lavorativo, teatrale. Il momento nel quale il contatto, la crescita e lo scambio si avvalorano in un arricchimento esponenziale, rispetto alla frontalità del rapporto sportivi/tifosi, datore di lavoro/dipendenti, attori/pubblico: e si fanno Cultura. Non dimenticando le maestranze varie, veri catalizzatori dei diversi rapporti nei diversi esempi che mi sono venuti in mente. E’ quanto ho pensato sabato, a notte fonda, nel cantinone sotto Palazzo Farnese di Caprarola, recentemente riaperto dalla risorta Pro loco come punto ricreativo di accoglienza e incontro, a margine della più disparate iniziative culturali che il fervido popolo caprolatto organizza, durante tutto l’anno. E’ quanto ho pensato con un buon bicchiere di rosso locale in mano, assaporando i dolcetti di nocciole fatti in casa, portati a tavola al temine della cena offerta agli artisti che, sabato 13 luglio, hanno presentato il loro spettacolo nel secondo appuntamento del 6° Festival di Musica e Teatro Popolare “Di Voci e di Suoni”.

Quello visto sabato scorso più che uno spettacolo è stata una inimmaginabile quanto riuscita jam session fra teatro e musica, più propriamente denominata “azione di teatro sincretico” (attraverso esperimenti nati nel 2002 da un’idea dello scrittore afroamericano William Demby) laddove si incontrano, scontrano e fondano elementi di letteratura (anche e soprattutto teatrale, spesso proveniente da autori classici) con la scansione drammatica ed emotiva dei “Tamburi parlanti” o “Talking drums” del West Africa e delle loro danze, dai flussi energetici primordiali. In particolare, per “L’OCCIDENTE IMMAGINARIO” presentato sabato 13 luglio, il prof. Stefano Lariccia (docente Digilab della Facoltà di Lettere a “la Sapienza” di Roma) con l’inarrestabile autoctono attore e regista caprolatto Romolo Passini, avevano ideato e proposto un collage tra le principali scene de “il Malato immaginario” di Molière e (in collaborazione con il Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze) i frammenti musicali sincretici di James Demby, con i penetranti tamburi di Ruben Agbeli, accompagnato dal suo gruppo.

Insomma un discreto “pippone mentale”: così immagino (andando verso Caprarola) il tentativo di giustificare l’operazione ed il titolo dello spettacolo, presentato come la metafora del solido, ostinato quanto malato Occidente, salvato dalla povera, generosa e passionale Africa migrante. Mi chiedo come riusciranno a rendere credibile il tutto: e come spesso mi accade di fronte alle avanguardie sperimentali postdatate mi siedo in platea, perplessa e curiosa, al centro del meraviglioso cortile interno di Palazzo Farnese.

Siamo pronti. Ma con un agile salto, dalla platea, sale sul palco il giovanissimo Assessore alla Cultura Simone Olmati (jeans e camicetta, 25 anni…) con un foglietto dove ha annotato “le poche cose tutte importanti che non vuol dimenticare per l’emozione”. Ed ha ragione, perché parla di Cultura: “cosa che non si può considerare tale se non la si affianca a concetti di donazione, volontariato e soprattutto condivisione. Cosa ben diversa dall’esibizionismo facile che offre il palcoscenico.” Mostra conoscenza e competenza, poteva anche far a meno degli appunti, sbirciati… Elogia la Compagnia Peppino Liuzzi che si prodiga per dar vita a questo prestigioso Festival. Ha perfettamente ragione, non ho altro da aggiungere a quanto detto dal giovane amministratore (ancor più perché il mio pensiero corre, con una nota di amarezza, alla passata estate e alla querelle con l’ex assessore alla cultura di viterbo: e le minuscole son tutte volute!).

Siamo pronti, dunque. E invece no. Il sindaco Eugenio Stelliferi (giacca e cravatta, leggera abbronzatura…) sale agilmente anche lui sul palco con un salto “per non essere da meno dell’Assessore”…prende così la simpatia e l’applauso del pubblico, al quale rapidamente, con chiarezza e partecipazione, presenta i concreti progetti, in atto e in fieri, della Cultura caprolatta: mentre il mio pensiero corre verso ciò che di nuovo (…spero!) e migliore (…impossibile che non lo sia!) potrà fare il neoeletto primo cittadino viterbese. E assiste a tutto lo spettacolo, per andare poi a parlare con gli artisti alla fine: “incredibile visu dictuque”! (“Incredibile da vedere e da dire!” come dicevano i miei amati latini….)

Penso, ancora una volta, che certe cose succedono solo a Caprarola. Lo spettacolo ha finalmente inizio. Buio in “sala”… Brillanti le luci sopra noi: tutti alzano gli occhi per un lungo istante e si domandano “se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua”. Mai frase più adatta, questa di Antoine de Saint- Exupery (dal suo “Il Piccolo Principe”) e dedicata sul libretto di sala agli amici Gianni e Maurizio, oggi stelle di quel cielo che ci accarezza.

Resto a lungo ad ascoltare parole (brillante come sempre tutta la ridotta Compagnia Liuzzi nel ridotto adattamento del testo!) e suoni (accompagnati, a un tratto, da uno struggente blues cantato da James Demby ma anche dai brevi testi gahanesi scanditi da Ruben Agbeli sulle danze Ewe). Aspetto qualcosa che leghi questo collage: e quando arriva, alla fine e inaspettatamente, lo lega perfettamente, per sempre. Anche nel “terzo tempo”, nel cantinone. Ancora adesso mentre scrivo. E cerco di descriverlo a voi. Perché, quando finalmente Checchino Zenoni/ Argante decide di dare la figlia in sposa al suo sincero innamorato Cleante, al posto di un “utile genero dottore che lo curi gratis”, entrano in scena a sciorinare bieche “formule di titolatura” un pittoresco gruppo di Accademici, che altri non sono se non lo stesso prof. Lariccia (in un improbabile italiano inglesizzato) un canuto signore americano (che declama qualcosa di ancor più incomprensibile nella sua lingua) un napoletano (che offre, come traduzione delle dotte dissertazioni precedenti, una ricetta che sembra una filastrocca in vernacolo partenopeo). E sulla scena appare, elegante giacca nera sopra/ telo pareo in sgargiante fantasia afro sotto, il promesso Cleante: un ragazzone nigeriano che porgendo un piccolo bouquet alla ragazza dice semplicemente “Angelica, I love you!” E di tutta risposta la figlia di Argante risponde in caprolatto “Cleante… mi ancò!” E danzano. Tutti. C’è altro da dire? Per me no. Se non ché (meraviglia nella meraviglia) scopro andando a portare i miei complimenti a Romolo Passini per quella lungimirante quanto efficace chiusura nell’adattamento, che l’americano è veramente un americano prestatosi al gioco (John Ratner è un valente pittore, molto conosciuto e quotato, in Italia dal ’58, vive in fondo a “lo dritto” di Caprarola…) e che Cleonte non è un attore (ma Edwards k. Chidiebere, dove l’ultimo è il nome e i primi due i cognomi – per gli ignoranti e/o intolleranti di ogni corrente politica: un giovane ambulante nigeriano, che vende i suoi piccoli articoli di abbigliamento davanti a un supermercato di Caprarola…) E credo che non ci sia davvero altro da dire.

Ora che scrivo, certo, molto altro ci sarebbe da dichiarare: viste le ultime esternazioni di Roberto Calderoli (vicepresidente del senato, di origine bergamasca) sulla signora Cècile Kyenge (ministro dell’integrazione, di origine congolese) avrei certo tutto un altro pezzo da scrivere! Ma non vorrei sembrare intollerante io nell’affermare ciò che una modesta cittadina pensa di lui. Perciò chioso dicendogli soltanto (e a chi come lui la pensa, nella Tuscia o nel mondo intero…) “Nescit vox missa reverti” ovvero, con Orazio, “La parola detta non torna indietro”. Sarebbe opportuno, per tutti, ponderarne il significato prima di usarle.

Io riassaporo, invece, quel finale de “L’OCCIDENTE IMMAGINARIO”: pieno di senso teatrale, di profonda apertura. Irripetibile jam session di teatro, musica, culture. Che prosegue intorno alla tavola apparecchiata con squisite leccornie preparate dalle donne della Compagnia, le quali, insieme al giovane assessore, offrono e presentano, specie ai molti non italiani presenti nel gradevolissimo simposio teatral-gastronomico: semplici e gustose pietanze piene d’amore e cultura, assaggiate e condivise cercando di tradurre il concetto di “zuppetta” in gahanese (o almeno in inglese) mimando… con una risata che ha mille colori e sapori. Di culture. Di cultura. Perché quando la Cultura ha la maiuscola è una sola. In tutto il mondo. Specie se quell’ombelico del mondo è Caprarola.

P.S. Per Alfonso (Antoniozzi, in volo verso l’Argentina, per lavoro) Ho avuto conferma che quel casale in vendita che abbiamo visto tra i castagni, per la nostra fuga culturale da viterbo, è nel territorio di Caprarola. Ci aspettano per visitarlo, al tuo ritorno da Buenos Aires.

Anche questa è Cultura.

 




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